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L’ex ministro della Famiglia del primo governo di Silvio Berlusconi spiega a SostenibileOggi.it il gap culturale sulla disabilità presente nelle aziende

Il valore della conoscenza. Sapere di cosa si parla, sulla disabilità. E costruire ponti, come tra l’altro indicato dalla Commissione Ue qualche settimana fa, tra le aziende e gli ambiti della politica in materia di inclusione e diversità. Antonio Guidi è responsabile del dipartimento di Disabilità ed Equità sociale di Fratelli d’Italia. Politico e neurologo, ministro per la Famiglia e la Solidarietà Sociale nel primo governo di Silvio Berlusconi, è stata la prima persona con disabilità a ricoprire un incarico governativo nella storia della repubblica italiana.

Racconta a SostenibileOggi.it il suo percorso personale e professionale, i pregiudizi sulla sostenibilità nel mondo del lavoro e la necessità di uno scatto culturale sul tema, attraverso la conoscenza. 

Onorevole Guidi, maggio è stato il mese europeo dell’inclusione, la Commissione Ue ha invitato alla costruzione di un ponte tra aziende e la politica su diversità e appunto inclusione. Qual è il quadro attuale? 

Si parla molto di sostenibilità ambientale, si parla di infortuni e morti sul lavoro ed è giusto che si faccia anche di più, è assente invece il tema dell’alienazione aziendale per chi lavora. Mi viene in mente il film “Tempi Moderni” di Charlie Chaplin che denuncia la condizione degli operai nella catena di montaggio, quei gesti ripetitivi che diventano poi un modus vivendi. Alienazione pura, come oggi

Non esiste associazione, sindacato o realtà culturale che parli in modo positivo dell’integrazione e della disabilità nell’ambiente di lavoro, si scontano pregiudizi che fanno si che, per esempio, nell’interlocuzione con una persona disabile si alza il volume della voce, come se capissimo meno. Si dà per scontato che il disabile che non cammina comprende meno degli altri, c’è una forma capillare di razzismo di cui dobbiamo tener conto, c’è troppa ignoranza alla base. E quindi, discorso che vale nelle aziende, come nei negozi, nei comuni, ci vuole conoscenza. Sapere che ci sono diverse sfaccettature di disabili, c’è chi sente poco, chi si muove con difficoltà. Categorie e forme infinite, attualmente poco conosciute. Da qui si deve partire e il dialogo deve avvenire attraverso la politica

La sensazione è che nelle aziende il tema della disabilità sia vissuto come un obbligo di legge, che i posti ai disabili siano caselle da riempire per essere in regola..

L’ambiente professionale incapace di comprendere che un disabile, oltre a determinare delle comprensibili difficoltà, è portatore di discontinuità culturale che è sempre una ricchezza, perde l’occasione di una diversa visione del mondo. 

Se integro una persona con disabilità non colmo un torto alla persona, ma perdo la chance di cambiare le cose dal mio contesto, rendendo più umano l’ambiente di vita e di lavoro. Si esca dalle immagini stereotipate, il disabile non è un angelo che salva tutto e tutti, è una persona che di fronte al lavoro risolve quello che riesce a fare, ma modifica il contesto. Lo rende, se mi consente, meno inquinante. Il disabile può essere una persona intraprendente, che commette errori, che va oltre la legge, L’immagine edulcorata è una condanna.

Oltre ai controlli rigorosi dei bilanci di sostenibilità aziendali anche in tema diversità e disabilità, come si favorisce questo scatto culturale?

Il rapporto con la politica è decisivo, ci vuole rigore nei controlli ma anche apertura alla conoscenza, dobbiamo invitare la politica a conoscere meglio la diversità e la disabilità. 

Si migliora con la conoscenza, dalla lotta allo stigma dell’ignoranza. Sapere di cosa si parla. Vengo da una famiglia che negli anni ‘40 e ‘50 ha potuto, tra  fisioterapia, lavoro sulla lettura, farmi migliorare ed essere alla pari dei miei coetanei nel mercato del lavoro. Nella mia carriera poi ho fatto un po’ tutto.

A causa dell’ignoranza si determinano decisioni che hanno un carattere discriminatorio, credo che l’errore fondamentale sia parlare dei diritti delle persone disabile tout court, serve passo indietro e cominciare a settorializzare i vari tipi di diversità, si metta a fuoco questo continente misterioso. Il problema c’è, inutile nasconderlo. La disabilità non è bella in se stessa ma può diventare una lente di ingrandimento dei problemi. Purtroppo il contesto non aiuta, la presenza di guerre in Europa e le conseguenze del post-Covid che non sono del tutto evaporate proiettano all’individualismo, perdendo di vista il valore della collettività. Ma ci sono anche segnali positivi, di apertura.

Andando un attimo oltre l’immagine edulcorata del disabile che affronta sempre con il sorriso gli ostacoli quotidiani: ci racconta l’hidden labour, il carico fisico-psicologico che è costretto a sostenere?

Sono ferocemente contrario alla narrativa dei disabili che raccontano la propria vita come una bella avventura. Ne ho scritto più volte, ne ho parlato, la persona disabile già quando scende dal letto deve combattere con il suo più grande nemico, cioè la gravità, la paura di farsi male. Si pensi questo sentimento poi proiettato nella giornata frenetica collettiva. 

Si pensi anche al danno della velocità della vita di oggi, dove si vuole tutto e subito, un carico che determina danni psicologici a tutti, figurarsi a noi disabili. Oggi se non si colma la vita con il cellulare ci si sente soli, è una condanna. Il mondo corre troppo, ma solo in apparenza e non concede spazio alla disabilità.

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